domenica 27 gennaio 2013


Falstaff: un musical targato Verdi

(Milano, Teatro Alla Scala 20/1/2013)

Su Falstaff ho un'opinione personale che può non essere condivisa: Falstaff NON è un'opera, Falstaff è il primo e più grande esempio di musical comedy della storia. Verdi e Boito affrontano Shakespeare nello stesso modo di Otello: mirando all'essenziale e sbalzando i personaggi come in nessun'altra opera è mai stato fatto prima (e molto raramente, ahimè, poi).
Per fare questo, però, Verdi inventa un genere. Si stacca dai canoni ormai consunti dell'opera comica, non prende spunto dall'operetta viennese o francese ma costruisce musica nuova: fonde la forma sonata, la fuga e il contrappunto con le arie, sviluppa piani sonori diversi con musiche diverse e ritmi diversi eseguite in contemporanea ma riesce sempre a far percepire il senso delle parole dei singoli cantanti, anche nei momenti di caos organizzato. Per far questo ha bisogno di cantanti nuovi che sappiano dare valore a tutto ciò che fanno. Ecco perchè chi è grande nelle opere più tradizionali puo "toppare" nel Falstaff (Qualche nome: Bruson e Gobbi tra i baritoni, Solti, Bernstein, Karajan e il mio amato Giulini tra i direttori e così via), mentre voci o bacchette meno blasonate possono riuscire a fare il miracolo.

Sotto questi aspetti il Falstaff scaligero è stato, se non perfetto, certamente un esempio eccellente.

Cominciamo dalla regia. Carsen ci porta in Inghilterra negli anni '50: bene, ci porta proprio in Inghilterra! Se qualcuno è andato da Simpson (il tempio del Roastbeef) a Londra si è visto trasportato lì, nella II scena del I atto.
E la prima scena in camera di Falstaff, con gli avanzi delle cene dà un'idea di quanto tronfia sia una nobiltà senza denaro.

Il Gentlemen's club della I prima scena del II atto è un altro momento di gran teatro: entra una donna (Quickly)!! Inconcepibile (e due soci se ne vanno), si parla di argomenti sconvenienti (e se ne vanno altri), si fa rumore e si ostentano denaro e ricchezze all'ingresso di Ford (e se ne vanno altri ancora): è l'invasione degli "arricchiti" nella nobiltà... (la ricchezza senza nobiltà è vuota e senza peso).

II atto II scena: una cucina americana ipermoderna dell'orribile color giallino tanto in voga all'epoca (a proposito: Carsen, qui forse commette un errore: non mi pare che esistessero ancora i frigoriferi incassati...). Cucina americana a Londra? Certo! L'arricchito ostenta la propria modernità e il proprio essere uomo di mondo!

III atto scena I: ecco come è ridotta la nobiltà: un sacco di cenci (Falstaff) in una stalla, con un cavallo che osserva distaccato e mangia la biada.

Un altro momento splendido è stato l'apertura della II scena del III atto. Il cielo stellato che appare all'apertura delle quinte mi ha trasportato sul palcoscenico di un vero musical londinese. Ancora da musical (ma perfettamente in stile) tutta la scena della quercia di Herne (che non c'è ma si vede lo stesso, tanto è ben evocata dalla musica e dalla recitazione).

Finale con passerella stile Gilbert & Sullivan: grande. Qui ho pensato ai Simpson (sì i cartoni animati): all'episodio in cui Bart si salva dalla morte facendo cantare a Telespalla Bob tutto "HMS Pinafore" di Gilbert & Sullivan!

A proposito di Bart Simpson parliamo del direttore Daniel Harding (una vaga somiglianza c'è, certo che c'è): è stato un po' meno "gaglioffo" di quanto mi sarei aspettato, per certi versi ha voluto essere un po' troppo ordinato ma ha impresso un ritmo decisamente teatrale alla vicenda. Ha operato il miracolo sempre più raro di non coprire mai i cantanti e ci ha regalato sberleffi orchestrali di gran qualità. Che poi non sia Toscanini è vero ma nessuno in Falstaff è mai riuscito ad accostarsi a lui e alla sua costruzione naturale ed antiintellettualistica.

Parliamo dei cantanti. Maestri: un Falstaff perfetto. Credo che solo chi è italiano possa comprendere le finezze strepitose da "recitar cantando" che ha saputo infondere in ogni parola che usciva dalle sue labbra. Maestri, semplicemente, è Falstaff, come lo erano (ma posso solo dire della parte vocale) Stabile e Valdengo (ma solo con Toscanini) e come non lo sono stati Gobbi (freddo), Fischer Dieskau (algido e contemporaneamente sopra le righe), Bruson (triste anche per colpa di Giulini), Pons (mi spiace per gli amici spagnoli ma il suo Falstaff è corretto ma scolastico) e lo stesso Terfel (ne avrebbe tutte le caratteristiche ma pronuncia male).

Cavalletti: ha sostituito in corsa Capitanucci nella parte di Ford nella serata cui ho assistito. Eccellente dal punto di vista vocale e scenico, personaggio completo. Ha condiviso con Maestri e con tutti la capacità di dare senso alle parole.

Carmen Giannattasio, Alice: ottima voce, eccellente presenza scenica e un fisico da "Jackie O'" che rendeva onore alla parte. Unico appunto: i suoi acuti svettano poco (ma nelle orecchie ho sempre la Freni...) oggi però non so chi ci potrebbe restituire un'alice così completa.

Irina Lungu, Nannetta: anche in questo caso ottima voce ed adesione al personaggio. L'avere una voce meno eterea di quanto si sia soliti ascoltare ha contribuito a rendere molto bene il personaggio di una giovane anni '50: non ancora emancipata ma...

Francesco Demuro, Fenton: bravo, giustamente bamboccione nel fisico e nei modi e con una voce espressiva. Ha saputo superare il ricordo di Florez (Fenton con Muti) pur senza farlo dimenticare.

Daniela Barcellona, Quickly: ha dato vita a una zitellona molto divertente ma non è stata il motore della burla, solo la messaggera. Vocalmente a posto ma forse è stata la meno espressiva del cast.

Laura Polverelli, Meg: a posto, senza strafare e con una voce tale da farsi sentire sempre (quello di sparire è un problema che spesso hanno le Meg). Impagabile la sua recitazione nella scena della lettera nel I atto.

Botta & Guerzoni, Bardolfo e Pistola: li ricordo insieme perchè potrebbero veramente essere una grande coppia teatrale. Credo di non aver mai sentito le loro parti così ben scolpite, così perfettamente in sintonia e, soprattutto, così ben cantate. Pura, semplice e grande classe.

Classe che ha contraddistinto anche il Cajus di Carlo Bosi. mai un cachinno, mai una stonatura, mai un'esagerazione. un'altra parola "fine" su come si interpreta questo personaggio chiave

Una nota di colore: la mia compagna, abbastanza digiuna di opera, si è divertita tanto e ha detto che è rimasta "colpita al cuore" dall'opera. Quando uno spettacolo arriva a questo, tutte le considerazioni tecniche e i dettagli scompaiono. Questo è il teatro!